La maestosità del Duomo di Milano davanti a me quando da adolescente mi catapultai fuori dalla scalinata di una metro che euforicamente avevo interpretato già come viaggio. Ecco, quando fu la prima volta che mi ritrovai in un luogo che era lontano da casa, ma così familiare da sorprendermi, quello è il momento in cui ho capito che c’è altro.
Sindrome di wanderlust, si chiama. Che in soldoni vuol dire “un forte desiderio di viaggiare ed esplorare il mondo” e secondo gli scienziati, dipende da un gene del DNA.
Da quel momento dentro di me cominciò a crescere qualcosa, un desiderio, una voglia che sembrava enorme, ogni giorno alimentata da libri e foto, poi diventata così grande da doverla colmare, che da desiderio l’ho fatto diventare sogno.
È il viaggio inteso come desiderio, curiosità, scoperta, iniziato già da sopra la metro, e prima ancora dal treno che mi portava in città, e ancora prima dal volo che per la prima volta mi portava sopra le nuvole. Il viaggio cominciato dal momento in cui ho varcato la soglia di casa con la consapevolezza che quando sarei tornata, avrei avuto un animo diverso, impreziosito da esperienze che già a dodici anni consideravo importanti. Non solo la meta finale quindi, ma anche il mentre fatto di mezzi, parole, aspettative, a volte anche deludenti.
Come a Praga, che al ritorno, dopo una lunga riflessione, compresi di non averla capita, di non averla assaporata nel modo giusto, col giusto atteggiamento.
Ma aspettative anche superate. Come Budapest, quando partii avendola sentita appena nominare, solo con la voglia di passare pochi giorni fuori, lasciando che niente mi influenzasse. E poi scoprii quanto è fantastica, meglio di quanto potessi immaginare. Quella vista panoramica che si ammira dalla collina Varhegy sull’altra parte della città, con il Parlamento così imponente sulla riva del Danubio e il Ponte delle Catene che sembra una cornice nella cornice della tua foto.
E penso a quelli che mi dicevano di non farla a piedi la collina perché faticosa e quasi mi lasciavo convincere, perché quando hai solo 24 ore per assaporare una città, hai sempre paura di non farcela. E quasi mi infilavo in una metro che avrebbe rovinato ogni cosa, ma alla fine capivo di essere ancora in tempo per non passare la maggior parte del viaggio dentro vagoni che a Budapest, come a Londra, come a Praga, sono sempre uguali.
E salgo a piedi, ammirando, fotografando, con gli occhi pieni di emozione, con la vista che migliora sempre di più.
Penso, invece, a quella volta che la fatica l’ho sentita davvero a Panarea. Si perché quando è uno dei giorni più caldi dell’estate, con 40, forse 45 gradi a mezzogiorno, e ti trovi in una splendida isola del Mediterraneo e sembra che camminando si incontrino solo salite e neanche uno spiraglio di ombra: ecco, lì senti la fatica e la testa bruciare. Ed ero così stremata da seguire un sentiero in dirupo in mezzo alle rocce, con la speranza di incontrare presto un po’ di ombra. E invece no, non trovai l’ombra ma il paradiso. Mi resi conto di aver trovato un angolo che tutta la ressa di turisti che invadono Panarea non conosceva. In mezzo alla natura vera, non contaminata da cemento, resort o ombrelloni. Io, gli scogli appuntiti, il mare limpido e trasparente, i granchi che sbucano da sotto i piedi.
E quando ritornai per la stessa strada (che stranamente anche dal verso opposto sembrava sempre in salita), la fatica e il caldo non li sentivo più perché anche questa volta avevo scoperto qualcosa di fantastico.
E poi arrivò il giorno di Londra. Tirai fuori la lunga, lunghissima lista di “posti da vedere” che ho cominciato a compilare a tredici anni e lessi l’inizio. Londra. Spuntare la prima voce della lista vuol dire essere sulla strada giusta (o sull’aereo giusto), no?. Per me voleva dire rendere possibile il primo tra i miei sogni.
E quando mi trovai sulla London Eye di notte o sotto al Big Ben o di fronte al Tower Bridge, con la fortuna di avere un compagno di viaggio che sai con certezza che prova quello che provi tu, mi sentii felice.
Al ritorno allora capisci di essere pronta a passare al prossimo punto della lista, ma allo stesso tempo resti con la consapevolezza che Londra non può finire così. Allora la riscrivi, per sicurezza, di nuovo nella lista.